martedì 25 novembre 2025

Ti amo, dunque esisto: perché la fine è un crollo





C’è un momento preciso, durante un litigio furibondo tra due persone che si sono amate, in cui le parole smettono di avere un significato semantico e diventano pure vibrazioni sonore, proiettili, schegge di vetro. Chiunque abbia assistito alla fine di un amore, o ne sia stato protagonista, conosce quella frequenza. Non è il tono del disaccordo, non è la modulazione del disappunto. È un urlo che viene da prima della gola, da prima dei polmoni. È un urlo che sa di bestia ferita e di divinità caduta.

La domanda che mi pongo oggi, osservando le macerie fumanti di certe relazioni o ascoltando l’eco delle nostre stesse stanze chiuse, non è "di chi è la colpa?". Quella è una domanda da avvocati, da contabili dei sentimenti. La domanda vera, quella che ci riguarda come esseri umani gettati nel mondo, è: perché si litiga? O meglio: perché, quando l’amore vacilla o finisce, la reazione non è il silenzio, non è la distanza, ma è la guerra totale?

La risposta che voglio proporvi non ha nulla a che fare con la psicologia spicciola del "lasciar andare". La risposta è ontologica. Si litiga con ferocia perché, quando l'amore viene meno, non perdiamo un compagno: perdiamo il diritto di esistere.


1. L'Amore come Atto di Creazione Continua

Per capire la furia della fine, dobbiamo avere il coraggio di guardare nell'abisso dell'inizio. Che cosa facciamo, realmente, quando diciamo "ti amo"?

Siamo stati abituati da secoli di letteratura romantica e decenni di commedie hollywoodiane a pensare all'amore come a un'emozione, un batticuore, una preferenza estetica o caratteriale. Niente di più falso. O meglio, niente di più superficiale.

Amare è un atto costitutivo.

Amare significa "tenere in vita".

Quando io amo te, non ti sto semplicemente dicendo che mi piaci. Ti sto dicendo: «La mia vita ha senso perché tu sei il mio centro». Nel momento in cui pronuncio questa promessa silenziosa, io compio un'operazione architettonica sulla mia esistenza: ti assegno uno scopo. E lo scopo è quello di tenermi in vita. Attenzione, non in senso biologico – per quello bastano cibo e acqua – ma in senso ontologico. Io esisto come "Io" perché ci sei "Tu" che mi guardi, che mi riconosci, che mi mappi all'interno del reale.

In questa dinamica, l'amante dice all'amato: «Ho necessità che tu viva il più possibile. Ho bisogno che la tua vita sia la più intensa, la più bella, la più luminosa che si possa immaginare».

Non è altruismo. È la forma più alta e sacra di egoismo vitale. Ho bisogno che tu splenda perché tu sei il sole del mio sistema solare. Se tu ti spegni, o se tu ti allontani, io non rimango al buio: io cesso di orbitare. Io precipito nel nulla.

L'amore, dunque, ci fornisce un Nord. È la bussola che trasforma un vagare insensato in un viaggio con una meta. Finché ci amiamo, ogni gesto, dal comprare il pane al costruire una casa, ha un vettore, una direzione. Tutto ciò che si fa e si è, acquista una densità, un peso specifico. L'amore è la gravità che impedisce alla nostra anima di volatilizzarsi nell'etere dell'indifferenza cosmica.


2. La Genesi dell'Essere

Questa verità è talmente radicata in noi che precede la nostra stessa coscienza. Se ci pensiamo, è un dato di fatto inconfutabile: nessuno può esistere se non è stato amato.

Non parlo di filosofia astratta, ma di biologia concreta che si fa spirito. Ogni esistenza è "venuta all'esistenza" nell'ambito di un atto (fisico o di desiderio) che, nella sua forma ideale, è amore.

Ma ancor più importante: il neonato umano è l'unico cucciolo in natura che muore se non viene toccato, guardato, amato. Se un bambino viene nutrito ma non riceve affetto, deperisce. Questo ci dice che l'essere umano non è una macchina biologica autosufficiente. Noi siamo, costitutivamente, relazione.

L'amore è all'origine dell'esistere e ne rappresenta la bussola ontologica. Nessuno può esistere se non viene continuato ad essere amato. È un plebiscito quotidiano. Ogni mattina, il partner che ci guarda e ci sorride ci sta inconsapevolmente rinnovando il passaporto per il mondo dei viventi. Ci sta dicendo: "Ti vedo, dunque sei".

Per questo maneggiare l'amore è maneggiare materiale radioattivo. Non stiamo giocando con i sentimenti, stiamo giocando con le fondamenta dell'essere dell'altro.


3. Il Frutto Avvelenato: Fenomenologia della Rabbia

Ed ecco che arriviamo al punto dolente, al cuore pulsante della nostra riflessione. Se l'amore è ciò che ci tiene in vita, cosa accade quando questo viene meno?

Molti pensano che il contrario dell'amore sia l'odio. Errore. Il contrario dell'amore è la morte ontologica. È l'inesistenza.

Quando l'amato si ritrae, quando il "Nord" scompare dalla bussola, l'amante non si trova semplicemente "single" o "solo". Si trova de-costituito. Si trova smembrato.

Quella che noi chiamiamo "scenata", quella furia cieca, quei piatti che volano, quelle parole terribili che si vomitano addosso all'altro ("Mi hai rovinato la vita!", "Vorrei non averti mai incontrato!"), non sono capricci. Sono il grido di terrore di chi sente la terra aprirsi sotto i piedi.

La rabbia che esplode alla fine di un amore è il frutto avvelenato di questa ferita esistenziale.

Litighiamo perché stiamo cercando disperatamente, violentemente, di costringere l'altro a vederci ancora. Preferiamo essere odiati piuttosto che ignorati, perché l'odio è ancora un legame, l'odio è ancora un riconoscimento. Se tu mi urli contro, io esisto ancora per te, anche se come nemico. Ma se tu te ne vai, se tu diventi indifferente, io svanisco.

La violenza verbale ed emotiva dei litigi coniugali mi ha sempre confermato questo fenomeno. Non si litiga per il tradimento in sé, o per la mancanza di attenzioni in sé. Si litiga perché il tradimento o la disattenzione hanno rotto il patto sacro: «Tu dovevi tenermi in vita, e invece mi stai lasciando morire».

È una reazione di sopravvivenza. È l'animale braccato che morde la mano che un tempo lo nutriva, perché quella mano ora stringe un coltello, o peggio, non stringe più nulla.


4. Il Senso (e il Non-Senso) dell'Addio

Il dramma, cari lettori, è che spesso non siamo attrezzati per capire questo meccanismo.

Liquidiamo la sofferenza dell'abbandono come "depressione" o "stress". Ma è molto di più. Venendo meno l'amore — e qui apro una parentesi doverosa: il fatto che l'amore possa venire meno è tutto da vedere e da dimostrare, forse l'amore vero muta ma non cessa, ma questo è un altro ragionamento per un'altra notte insonne — viene meno il senso dell'esistere.

Immaginate un astronauta che fluttua nello spazio, legato alla navicella da un cavo. Quel cavo è l'amore. Se il cavo si spezza, l'astronauta non muore subito. Continua a respirare, il cuore batte. Ma è perduto. Non c'è più sopra, non c'è più sotto, non c'è più ritorno. Quella vertigine, quel panico assoluto, è ciò che proviamo quando la persona che era il nostro "Nord" ci volta le spalle.

La furia, quindi, è il tentativo maldestro, tragico e umano di riafferrare quel cavo. È il tentativo di negare l'evidenza del vuoto.

Ci arrabbiamo perché ci sentiamo truffati: avevamo investito la nostra intera identità in quella borsa valori, e ora ci dicono che le azioni valgono zero. Ci sentiamo derubati non del passato, ma del futuro. Senza quel Nord, verso quale punto viaggiare? Verso quale porto dare un senso a tutto ciò che si fa?


5. Maneggiare con Cura

Concludo questa riflessione non con una soluzione, perché non esistono soluzioni facili all'enigma dell'esistenza, ma con un invito alla prudenza. Una prudenza sacra.

Ci sono elementi in natura che devono essere maneggiati con molta cura: il fuoco, l'uranio, i virus. E tra questi, l'amore è senz'altro il più importante, perché si colloca prima di tutto.

Dobbiamo imparare a riconoscere l'enorme responsabilità che abbiamo quando diciamo a qualcuno "ti amo". E dobbiamo riconoscere l'enorme devastazione che possiamo causare quando ritiriamo quella promessa.

Non possiamo impedire agli amori di finire, forse. Ma possiamo, e dobbiamo, comprendere che la rabbia dell'altro, o la nostra, non è solo cattiveria. È dolore puro. È la paura del buio.

Dovremmo avere compassione per le nostre urla e per quelle di chi ci lascia. Perché in quel momento, in quel preciso istante di odio e furore, stiamo solo confessando la nostra più grande fragilità: non sappiamo essere, se non siamo amati.

Siamo creature fatte di sguardo altrui. E quando la luce si spegne, non resta che l'urlo nel buio, sperando che qualcuno, da qualche parte, accenda di nuovo una candela.


Nota dell'autore: Questa riflessione nasce dall'osservazione delle dinamiche umane, ma è dedicata a chiunque si stia chiedendo, in questo momento, dove sia finito il Nord. Non smettete di cercarlo.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.

MATRIMONIO: ISTRUZIONI PER IL DISORDINE - ELOGIO DELLA DISCONNESSIONE

Matrimonio: Istruzioni per il Disordine Come trasformare il caos quotidiano in intimità. Viviamo in un mondo che ci chiede di essere perfett...